Il Mandragolo
Da che esiste il mondo si fanno guerre, rivoluzioni, perfino campi di sterminio; s'inventano
sport, mezzi di trasporto e droghe per trasformare il più gran numero possibile di vivi in morti.
Luigi Santucci - usando di quello strumento scandalosamente privilegiato che è la poesia, qui
tutta tradotta in un concretissimo dinamismo narrativo - trasforma invece i morti in vivi, i
trapassati in presenti, abbattendo la barriera che ha finora separato questi da quelli. È la più
autentica di tutte le rivoluzioni, oscuramente sognata e attesa, fin dall'epoca dei cavernicoli,
dall'umanità intera: la sola che non si debba pagare a peso di morte, proprio perché della
morte è il rifiuto e l'abolizione. Una danza macabra, alla rovescia: si vorrebbe dire una danza
vitale, la danza della Vita che non ammette più eccezioni, esclusioni, "buchi neri". Corifeo di
questo ballo è Demo: sgorbio umano, aborto, sagrestano da tregenda e da sacrilegio, sublime
e stregonesco ciarlatano; un vero "mandragolo", ossia - come l'erba mandragola - una
gramigna bivalente che attecchisce tra il regno sotterraneo di Plutone e quello voluttuoso di
Venere. La grande guerra tra Vivi e Morti oscilla tra il paradisiaco e il verminoso, in metafora
biblica tra il Cantico dei Cantici e il Libro di Giobbe, abbagliante di luci quasi psichedeliche,
muggente di feroci armonie, resa dalla malizia di un mestiere letterario che si fa sostanza
artistica e rapinosità narrativa. In quest'amalgama riemergono rinnovati fin dentro il midollo i
perpetui idoli santucciani: la madre, il prete, il dialetto, l'organo, gli animali, il lieto fine.
Bertoni