Strade morte
Western, fantascienza e fascinazioni gay trasformano un possente affresco tripartito in un
piccolo film, ammaliandoci con uno stile visionario che abbatte tutti i generi ed è ormai
diventato un classico della letteratura.
“Qualche volta i sentieri durano più delle strade”: così aveva sentenziato William Burroughs
ne Le città della notte rossa, primo capitolo di una “trilogia della tarda maturità” di cui fanno
parte anche Strade morte e Terre occidentali. E l’apertura di questo libro non deluderà chi ha
imparato ad amare le bizzarre creazioni del Padrino dei Beat: una classica sparatoria in stile
Vecchia Frontiera ci catapulta indietro nei decenni alle soglie del Novecento, testimoni
attoniti delle stralunate avventure di Kim Carsons — pistoiero sui generis che legge Rimbaud
— e dei suoi sodali impegnati a salvare la libertà della galassia. Tra eroi decadenti e
vagabondaggi nel tempo, Strade morte si svela come un rosario senza scampo in cui le
vicende dell’umanità si ripropongono sempre e in ogni epoca: cicliche, indecifrabili e lanciate
a folle velocità verso un destino beffardo finché “il cielo si oscura e si spegne”.
Cottogni