Follia per sette clan
Philip K. Dick, quarantaduenne, americano, è uno degli autori più noti di sf; e tra i più
apprezzati dal, pubblico italiano, grazie soprattutto all’opera di Galassia che ha presentato
gran parte dei suoi romanzi. Nel 1963 vinse il Premio Hugo col romanzo The Man in the
High Castle (La Svastica sul Sole - SFBC); e la critica non ha mai mancato di riaffermargli
di continuo la propria fiducia. Se Dick ha un difetto, è forse quello di essere troppo
prolifico: scrive, per quello che siamo riusciti ad accertare, una media di tre/quattro
romanzi l’anno, oltre ad un numero imprecisato di racconti. I risultati, di conseguenza, non
sono sempre eccellenti; spesso si avverte nelle sue opere l’eco di idee e situazioni già
sfruttate, fenomeno evidentemente inevitabile con una produzione tanto abbondante (è il
caso, ad esempio, di Counter-Clock World, e anche del più recente e discusso Ubik).
Comunque Dick è indubbiamente un grosso autore: partito da posizioni relativamente
tradizionali, ha costruito poco per volta un mondo tutto suo personale, altamente
inimitabile; e ha introdotto nella narrativa di sf alcuni “media” ormai comunemente
accettati (tipico esempio sono i “Simulacri”, portati forse alle loro estreme conseguenze
nel suo ultimo, eccellente romanzo: A. Lincoln, Simulacrum). Questo Clans of the Alphane
Moon è un po’ la summa di una certa parte della sua produzione. Scritto col solito,
magistrale stile di Dick (una prosa lenta, massiccia, fredda ma estremamente riflessiva,
capace di contenere nelle sue strutture una miriade incredibile di fatti), è la
rappresentazione di un mondo di psicopatici, diviso in sette livelli differenti a seconda dei
vari gradi della loro malattia. Tutte le società che Dick ha descritto hanno sempre avuto
in sé il germe della follia; e i suoi personaggi, agitati sempre da problemi e moventi mai
completamente razionalizzabili, erano il simbolo della nevrosi contemporanea. I
protagonisti di Clans of the Alphane Moon sono tutti, chi più chi meno, tendenzialmente
schizofrenici: da Chuck Rittersdorf, continuamente in cerca di una stabilità impossibile; a
sua moglie, psichiatra dalle strane tendenze; a Lord Running Clam (il cui nome, alla
lettera, significa “ Signor Conchiglia-Che-Corre “), tanto gentile e compassato; a Bunny
Hentman, incapace di dirigere la sua vita nella direzione prestabilita; a Gabriel Baines, il
personaggio più comico e insieme patetico di tutta l’opera, violentato fin nel profondo, ma
sempre pronto a risorgere con indifferenza; a tutti gli altri. Un romanzo in cui i fatti
s’intrecciano, pur nella loro lentezza, con velocità talora spaventosa; in cui i destini di
tutti sono legati in maniera tanto aggrovigliata da non poter più essere ad un certo punto
divisi; in cui l’azione, piroettando su se stessa, continua a mordersi la coda senza mai
arrivare ad un punto fermo. Un tipico romanzo alla Dick, quindi; ma con qualcosa di più,
proprio per la sua strutturazione demenziale, finalmente chiarificatrice di certe idee
espresse in precedenza dall’autore. Un’ultima nota: in sede di traduzione abbiamo preferito
conservare, nei limiti del possibile, le abbreviazioni che Dick spessissimo usa. Questo per
non togliere niente del sapore originario al libro, che finisce così nell’inserirsi anche in un
discorso di rinnovamento della lingua, oltre che dei contenuti.
Tellini