Il cacciatore di androidi
Un nuovo romanzo particolarmente impegnativo di Philip K. Dick. La tematica è quella più
cara all’autore: i robot, gli androidi, così perfezionati che è praticamente impossibile
distinguerli dagli esseri umani. Dick è affascinato dalla creazione artificiale della vita,
perché a questo livello di simulazione si può ben parlare di vita, e soprattutto dalla sua
presa di coscienza, dall’assoluta riluttanza ad essere considerata una forma inferiore. Una
riaffermazione di diritti, la quale, naturalmente, riecheggia molte delle istanze che agitano
oggi, in ogni parte del mondo, la società umana. Ad ogni modo, pur con questo tema
fondamentale, i cui umori scientifico-sociali si possono rintracciare via via, nel passato,
fino al capostipite, il “R.U.R.” di Ciapek, con i suoi conseguimenti e le sue rivolte, lo
sviluppo realizzato da Dick in “Il cacciatore di androidi” (Do androids dream of electric
sheep?) è ricco d’idee originali, condotto con notevole maestria narrativa e una
interiorizzazione particolarmente pregnante. La sopravvivenza degli androidi, un caso di
coscienza? Sì, e Dick scava, profondamente nell’animo umano, alla ricerca di una risposta.
Una risposta che sa di rinuncia, e di una mortale stanchezza. Anche la scena, d’una
tragicità quotidiana, nella quale si svolge il romanzo, è una volta ancora un “dopo la
guerra nucleare”. La Terra, erosa, consunta, avvelenata, ospita nelle sue città
semideserte una umanità spenta eppure ferocemente disposta a lottare per il possesso di
questo mondo squallido, dall’aria perennemente grigia che, tra nubi di polvere impalpabile,
non conosce più il sole. Mentre la radioattività penetra lentamente dietro ogni
sbarramento, per consumare anche i corpi e le intelligenze dei superstiti. Ma i personaggi
di Dick, pur muovendosi in uno scenario così familiare agli appassionati di science-fiction,
sono uomini autentici, e una volta ancora Dick dimostra, pur nella eccezionalità delle sue
trame, di coltivare con particolare attenzione il verosimile, anzi, il vero. Quindi, la
descrizione delle lande desolate e delle città vuote, dove immensi falansterii risuonano del
silenzio dell’umanità perduta, che ha lasciato vuoti per sempre migliaia di appartamenti,
trova una particolare risonanza in noi, e ci costringe a partecipare. Oggi, una porzione più
grande di uomini resiste con difficoltà all’urgenza del mondo presente, e cerca evasioni e
soluzioni nella perdita di coscienza o nella creazione di utopie più sognate che vissute. Per
Dick dopo che l’uso sbagliato e folle delle scoperte scientifiche e della tecnica ha
precipitato il mondo nella catastrofe, la stessa tecnica superstite si assume l’incarico di
conservare agli esseri umani questa alienazione fatta di ottimismo artificiale, di
partecipazioni empatiche di gruppo, e consente ad essi, nell’improvvisa solitudine biologica
in cui si sono venuti a trovare, la compagnia di perfette riproduzioni elettriche di animali
domestici. Bizzarrie? Casi-limite? Forse, ma Dick li rappresenta con tanta efficacia da
farne una sorta di inferno-paradiso quotidiano, in cui i concetti di vita e morte, e amore
perfino, nel grottesco duello tra l’uomo e la macchina che ha saputo creare a sua, troppo
perfetta, somiglianza, scavano in profondità, fino alle più intime e disperate ragioni di
sopravvivenza. Ecco, quindi, perché questo mondo eccezionale in cui vivono tutte le loro
fobie e le loro illusioni i personaggi di Dick ci sembra così vicino, e per molti aspetti
Tellini