Gli occhi di Heisenberg
Vincitore del premio Science Fiction Writers of America per il romanzo, Frank Herbert
gode, nel suo paese. di vasta stima e ammirazione. Di per sé, questa non sarebbe una
raccomandazione sufficiente. E non tanto perché, quando sentiamo parlare di premi
letterari noi italiani tendiamo ad arroccarci istintivamente su posizioni di scettica
diffidenza, ammaestrati dalla casistica ammannitaci, dal primo gennaio al trentun dicembre
di ogni anno, dal mondo culturale nostrano; ma perché gli americani, adepti diligentissimi
dell’arte di discriminare in tanti altri campi, quando si tratta di fantascienza sembrano
adottare la politica dell’embrassons-nous. Questa assenza quasi assoluta (ma è doveroso
ammetterlo, ci sono lodevoli eccezioni) di capacità critica ha fatto si e fa si che vengano
osannate con sorprendente imparzialità la delicata, severa poesia di Simak e le
sollecitazioni puramente epidermiche di Cordwainer Smith, i sottili, intelligenti sarcasmi di
Sheckley e di Tenn e le ingenue invenzioni space-opera di Williamson, la formidabile
strutturazione stilistica di Vonnegut e l’onesta produzione artigianale di Murray Leinster, le
torve ma ciclopiche allegorie di Philip Dick e le avventure alla Gordon di Hamilton. Se lo si
considera da un punto di vista puramente letterario, Herbert possiede uno stile disastroso,
e qualunque altra parola meno forte suonerebbe come caritatevole eufemismo. Se è vero
che buona parte degli scrittori di fantascienza si divide in tre categorie, quelli che hanno
idee ma non stile, quelli che hanno stile ma non idee, e quelli che non hanno idee ma non
hanno neppure stile, Frank Herbert appartiene di diritto alla prima. Ma questa affermazione
non deve suonare denigratoria. Perché Herbert non ha stile, perché tenti rabbiosamente
impennate pirotecniche condensando certe sintesi fino al limite dell’incomprensibilità nella
ricerca disperata di inventarsi uno stile, salvo poi abbandonarsi a monotonie sintatiche
sconcertanti, a ripetizioni pedestri che arrivano a presentare il soggetto, nell’identica
forma, anche tre o quattro volte nella stessa proposizione: ma le idee, e ragguardevoli,
non gli mancano mai. E se un lettore cerca, in un romanzo di fantascienza, non eleganza
di scrittura e raffinati sperimentalismi, ma l’interesse di una vicenda serrata, ben
costruita, capace di vincolare l’attenzione dalla prima all’ultima pagina con situazioni
inedite, colpi di scena non gratuiti e soluzioni intelligenti, una chiara caratterizzazione dei
personaggi non aliena da plausibili notazioni psicologiche, Frank Herbert è in grado di
servirlo alla perfezione. La fine degli Immortali è un esempio quasi paradigmatico di questa
sua capacità. Imparentato alla lontana, come nucleo tematico, con quell’opera
notevolissima che è O?! Amaranto di Vance, il romanzo di Herbert ha una sua poderosa
originalità: la concezione dell’allevamento in vitro degli embrioni umani, l’invenzione di
Ciber, uomini che hanno rinunciato alle loro emozioni per acquistare i poteri dei robot, e la
trovata conclusiva, autentica rarità della narrativa fantascientifica americana, in cui ogni
situazione di oppressione viene di regola risolta con una rivoluzione vittoriosa e
l’annientamento dei malvagi, costituiscono altrettanti punti a suo merito. Frank Herbert
non ha stile, ma sa benissimo farsi leggere con interesse e soddisfazione. E questo,
bisogna ammetterlo, non è da tutti, e non soltanto nel campo della fantascienza.
Tellini