L'ultimo vessillo
L. Ron Hubbard è uno degli autori che arrivarono in Italia con la “prima ondata” della
produzione fantascientifica, anche se le opere finora edite nel nostro paese, che non sono
molte, rappresentano più che altro chiari esempi di narrativa fantastica o di science
fiction spuria. Ad esempio, il romanzo forse più noto di Hubbard, Return to Tomorrow
svolge, attraverso una trama interessante e a tratti nobilitata da alcune impennate
letterariamente valide, un concetto scientifico assolutamente falsato che dimostra
chiaramente la più assoluta incomprensione o ignoranza sulla teoria della relatività del
tempo. In quanto a un’altra opera di Hubbard, Typewriter in the sky, le parentele con la
fantascienza sono assolutamente inesistenti. Si tratta di un racconto di fantasia pura, a
dire il vero uno dei più piacevoli e interessanti del genere, e nulla più. Non parliamo poi di
Death’s Deputy, pubblicato proprio ai primordi della science fiction in Italia in due diverse
edizioni, romanzo caotico e assurdo anche nel campo del soprannaturale cui appartiene di
diritto. In ogni modo gran parte delle opere di Hubbard risentono di un acceso culto del
militarismo, indulgono su particolari crudeli o spietati e non trascurano di fare appello ai
sentimenti più scontati del lettore provocando, nella maggior parte dei casi, effetti
notevoli. Ma c’è da chiedersi perché in Italia sono state scovate quasi tutte le opere di
questo autore le quali stanno alla fantascienza come, con il dovuto rispetto, Victor Hugo
sta al romanzo poliziesco, mentre rimaneva medita questa Final Blackout che appare
senz’altro come la cosa migliore e più ortodossa scritta da questo eclettico autore (il
quale, non dimentichiamolo, suscitò polemiche a non finire con l’invenzione della dianetica,
la pretesa scienza che collega il comportamento dell’essere umano ai traumi subiti in fase
prenatale e alla quale sembra essersi ultimamente dedicato anche A. E. Van Vogt); si
tratta di un mistero sul quale preferiamo non indagare. In ogni modo, ecco questa Final
Blackout, sottoposta al pubblico di Galassia nella sicurezza che esso sarà in grado di
apprezzarla e giudicarla con la consueta maturità, senza lasciarsi influenzare dai
presupposti ideologici assai discutibili sui quali si basa. In effetti L’Ultimo Vessub è un
romanzo di chiara ispirazione nazista. Ideologicamente quindi è assai discutibile, come
discutibili sono le frasi pronunciate nel finale dal Tenente, frasi che sono senza possibilità
di equivoco la espressione stessa del pensiero dell’autore (sebbene nella presentazione
alla seconda edizione Hubbard volesse attutire l’effetto provocato dalla pubblicazione di
questo libro). Ma, prima di tutto, si tratta di un romanzo valido e potente, e come tale
deve essere letto e giudicato. Sul tema della guerra finale, nella science fiction, si
contano esempi infiniti a partire dai primordi e terminando (per ora) ai giorni nostri. Di
volta in volta si è tentato di moralizzare, di criticare, di distruggere o di creare nuovi
mondi e nuove società. E, nella maggior parte dei casi, si è arrivati a una condanna del
militarismo esasperato, a una rivalutazione o, per lo meno, a una valutazione non del tutto
negativa della scienza (eccezion fatta per l’ascientifico Bradbury il quale però, ne’ Gli anni
della Fenice, invocò la libertà della cultura e del pensiero): al contrario Hubbard individua
nella cultura, nelle macchine e nella politica le cause della rovina, e giunge perfino a
giustificare la guerra, a lodarla per la sua opera di sfoltimento dei rami inutili o malati dal
grande ceppo umano. Il protagonista del romanzo, il Tenente, è avvolto da una strana
aureola d’invincibilità. il cui trionfo si concreta proprio nel momento in cui la caduta
sembra irrevocabile e imminente. Accanto a questa figura se ne muovono altre, tutte
viste attraverso il particolare specchio deformante di cui l’intero libro è pervaso: dagli
uomini della Quarta Brigata, caratterizzazione del militare senza grande intelligenza o
coltura che non sia l’arte della guerra, agli ufficiali britannici. tutti positivi e validi quelli
combattenti, tutti negativi e opportunisti quelli appartenenti allo Stato Maggiore. Gli
uomini politici, secondo Hubbard, sono o come il loquace Frisman, carico di ideali e di frasi
roboanti, ma privo di scrupoli quando si tratta di salvare la propria carriera e se stesso dal
ridicolo e dal fallimento della missione, o come Breckwell, vacuo e inutile, semplice
strumento pronto a dire sempre di sì di fronte agli individui più abili e più decisi di lui. Si
tratta, in sostanza, di un’esaltazione del militarismo preso sotto un aspetto addirittura
messianico; una esaltazione che non conosce limiti di nazionalità (gli ufficiali russi
incontrati dal Tenente all’inizio del volume sono altrettanto leali e capaci del capitano
Johnson, comandante dei marinai americani) Mentre l’altra caratteristica che trasuda da
ogni pagina del romanzo è il disprezzo, l’odio quasi con cui sono considerate le teorie
marxiste, il ridicolo in cui sono messi sia i capi comunisti (anche se Hubbard si affretta a
premettere, nell’introduzione, che si tratta di una deviazione dai principi marxisti) nella
persona di Hogarthy, che non appare mai direttamente ma viene vista e giudicata a
seconda dei colloqui che avvengono tra i protagonisti, sia i capi socialisti e
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