Nel nome dell'uomo
Oltre ad essere il primo romanzo di quella polivalente creatura che passa sotto il nome di
Gianni Montanari, Nel nome dell’uomo è una di quelle opere destinate a suscitare
interesse, perplessità e probabilmente panico in qualunque lettore. È un romanzo duro,
difficile, privo di compromessi di qualsiasi genere; traboccante invece d’ambiguità,
simbolismi, interpretazioni sorprendenti difatti in sé già sconcertanti. Un’opera, al di là
d’ogni dubbio, totalmente originale; nata dalla rielaborazione lunga e personalissima d’una
idea (quella della nebbia) che Adalberto Cersosimo mi regalò una sera di diversi anni fa, e
che in seguito Gianni mi rubò, visto che io non ne facevo nulla. Difficile tentarne
un’interpretazione. Già a prima vista è evidente come la storia si dipani per strati
sovrapposti, ognuno dei quali può contenere in sé la ragione totale del romanzo. In primo
luogo la trama, che mi sembra fare tutt’uno con l’ambientazione: cinque personaggi
dichiaratamente operanti, più un sesto la cui identità (simbolica) mantiene un carattere
netto di polivalenza anche dopo l’epilogo, due case isolate tra loro e pure complementari,
e naturalmente la nebbia. Una trama sostanzialmente immobile, fissata in una ripetizione
pressoché rituale con bruschi balzi in avanti o all’indietro, tutta sottintesa. Nell’insieme mi
pare di scorgervi un continuo, oserei dire straziato simbolismo di ritorno al grembo materno
(e Luca, uno dei personaggi, è brevemente consapevole del fatto); simbolismo che del
resto è uno dei caratteri dominanti dell’opera, con quella sua voglia malcelata d’una quiete
finale. A questo livello il lettore cerchi d’acuire la sua percezione dei nessi logici, o
perderà irrimediabilmente la possibilità di penetrare in questo mondo chiuso e refrattario.
L’altro strato è dato dalla riflessione ragionata dei personaggi sugli avvenimenti, e
paradossalmente anche dal riflesso che gli avvenimenti hanno sui personaggi. A questo
punto Montanari gioca disinvoltamente (senza per questo fare sfoggio, sia chiaro, di
velleità intellettuali che sono lontanissime dai suoi interessi) con concetti d’ordine
semantico, psicologico, psicoanalitico; e, sotto sotto, anche religioso. E il risultato più
straordinario di questa operazione è il suo assumere un carattere d’estrema apertura,
libera ad ogni interpretazione, pur nella concretezza inalienabile di certi punti fissi.
Particolarmente interessanti, per le implicazioni logico-ontologiche che evidenziano, i brevi
stralci dal diario di Jules: c’è materiale di lavoro per tante altre ipotesi (e qui possiamo
anche rintracciare la parentela culturale più facilmente azzardabile, quella cioè con Ballard
e Aldiss, pur entro limiti ristretti e comunque immediatamente superati dall’astrazione
personale dell’autore). Evidente anche la funzione di catalizzatori logici che assumono via
via i tre personaggi maschili: Jules per tutta la prima parte, Luca per la seconda, e
Federico per le ultime pagine. Sono loro a fornire i dati più immediati, e al tempo stesso
più remotamente sepolti, di questa metamorfosi psichica che costituisce il nucleo della
storia. E anche loro hanno un modo di porgere che è tutto indiretto, quasi taciuto; solo
che dietro la reticenza delle parole, dietro questo pudore terribile e spaventato, spuntano
le ombre più inconsuete della nostra stessa condizione umana. O meglio: della condizione
umana di Montanari, tormentata come poche altre, che ha il coraggio di farsi testimone
universale. Non fosse che per questo dovremmo sentirci in debito con lui. Lo stile, che si
trova fatalmente a dover giocare con le stesse parole, a dover riproporre di continuo le
stesse informazioni, è anch’esso fissato in quel particolare tipo d’eternità che caratterizza
la trama (e che ciò sia voluto, ce lo conferma l’accenno alla teoria agostiniana del tempo,
metro ultimo forse di tutto lo svolgersi degli avvenimenti). L’apparente difficoltà di certi
passaggi, l’uso volte un po’ ingenuo di certi vocaboli, sono semmai indici delle difficoltà
incontrate nel battere un terreno rimasto sinora inesplorato. E del resto, per essere al suo
primo romanzo, Montanari dimostra un’invidiabile capacità di taglio e di sceneggiatura,
oltre che di personalità linguistica. Mi lusinga pensare che un po’ del merito vada anche a
me, per le sollecitazioni (culturali e no) che negli anni della nostra amicizia gli ho offerte.
Queste brevi note, redatte immediatamente dopo la lettura del romanzo, hanno la sola
ambizione di fornire al lettore un minimo punto d’appoggio, e di costituire una parte di una
delle possibili chiavi d’interpretazione. Perché, ripeto, la caratteristica forse più
affascinante dell’opera è la sua polivalenza; e sarebbe assurdo pretendere di esaurirla
nello spazio d’un’introduzione.
Tellini