Il giudizio di Eva
Nel panorama multiforme e multicolore della science fiction, Edgar Pangborn occupa una
posizione particolare, di confine. Insieme a pochissimi altri, tra i quali è doveroso citare
John Christopher e Kurt Vonnegut, Pangborn non si è mai preoccupato di centrare la
propria opera sui fatti, ma sull’influenza che questi fatti ipotetici hanno sopra la natura
umana. Ciò che lo interessa è il divenire di una o più creature umane attraverso il divenire
delle cose, che si risolve in una verifica allegorica di realtà immanenti. Se l’allegoria,
secondo la migliore tradizione medievale, comporta come fase necessaria una “ricerca”,
allora mai come in Pangborn merita la sua qualifica di allegoria moderna. La ricerca
compiuta dai personaggi di Pangborn è sempre duplice: fisica, realizzata attraverso luoghi
e dimensioni inesplorati ed enigmatici, e spirituale, realizzata attraverso l’azione e
soprattutto attraverso il pensiero. Il risultato è sempre l’acquisizione, da parte degli esseri
umani, di una migliore conoscenza di se stessi, e di una profonda libertà interiore. Come i
lettori di fantascienza sanno benissimo da molti anni, e come la maggioranza del pubblico
non ha ancora imparato, siamo letteralmente ad anni-luce di distanza dall’accezione
comune della parola “fantascienza”, che per troppi è ancora sinonimo di puerili, balorde
avventure tra mostri extraterrestri o spettri indigeni. Aggiungiamo a questa tematica
particolare una scrittura deliziosa, apparentemente caotica fino all’incoerenza, un ribollire
di immagini afferrate al volo, inchiodate sulla carta e subito abbandonate per inseguire
una visione più nuova e più splendente; una sete immensa, indomabile di libertà, il
desiderio di frantumare i ceppi di ogni convenzione e di ogni costruzione tradizionale:
questo è Edgar Pangborn. In Italia, Pangborn venne introdotto quasi venti anni fa, dalla
traduzione d’una sua operina fantasiosa e squisita, ‘Angel’s Egg’, che già nell’originale era
stata vittima di uno stolido massacro, poiché il direttore della rivista in cui apparve rimase
profondamente scandalizzato delle audacie, puramente stilistiche e sintattiche, che
Pangborn si era concesso, e in nome d’un pedestre buon senso aveva sistematicamente
falcidiato le espressioni più aeree e più incantevoli, sostituendole con altre secondo lui più
comprensibili al pubblico. La tendenza a conferire al povero pubblico una patente di
idiozia che non merita costituisce, in tutto il mondo, parte della concezione paternalistica
dei dispensatori di cultura ad ogni livello. Oltre a un complicato, avventuroso ma tutt’altro
che disprezzabile ‘Ad ovest del sole’, passato del tutto inosservato tra noi, di Pangborn è
apparsa in Italia l’opera di più vasto respiro, ‘Davy l’eretico’. Con essa, ‘Il giudizio di Eva’
ha numerosissimi punti di contatto, ideologici e stilistici se non strutturali. Non mi sembra il
caso di condizionare il lettore con una esegesi di questo romanzo, fantastico e realista,
intimista e avventuroso insieme; ‘Il giudizio di Eva’ è un mondo autentico, labile e
concreto, che ogni lettore deve scoprire da sé: anche perché ogni lettore potrà
riconoscersi in uno dei tre protagonisti, Kenneth, Ethan o Claudius, e attraverso le loro
vicende e i loro pensieri potrà imparare a capire meglio se stesso.
Tellini