Guerra totale
Per quanto in Italia sia poco più di un Carneade — a differenza del suo socio celeberrimo
— Mack Reynolds gode, in patria, di una solida reputazione come autore fantascientifico.
Sono quasi leggendari i racconti che Reynolds e Brown scrissero insieme, isolati in un
recinto di capre, come ebbe a dichiarare spiritosamente uno di loro. Più tardi, il sodalizio
Brown-Reynolds si sciolse: Reynolds si trasferì in Spagna, si europeizzò in buona misura, e
continuò a scrivere per conto proprio, così come continuava a scrivere per conto proprio
Fredric Brown. Reynolds è un autore singolare: e basterà questo suo romanzo, uno dei
suoi più divertenti, a diinostrar lo Europeizzato, abbiamo detto, e disincantato. La sua
satira, più sorridente che avvelenata, è equilibrata ed equidistante: in questo The Earth
War ci sono frecciate al sistema della società affluente americana e al sistema comunista,
distribuite con scherzosa imparzialità. La trovata centrale del romanzo, formidabile,
avrebbe potuto venir svolta in chiave di feroce polemica — alla Pohl — o di fredda
esemplificazione drammatica — alla Dick — o di farsa intellettuale — alla Nearing — tre
modi egregi e produttivi di abbordare un tema. Ma Reynolds si è attenuto invece a una
linea tutta sua, che potremmo definire imparentata con quella commedia sofisticata,
all’americana, che nel cinema diede addirittura il suo nome a tutta un’epoca. Mack
Reynolds è una specie di Frank Capra della narrativa fantascientifica. Un mondo di
benessere, in cui tutti campano sui dividendi delle azioni che il governo americano, il
Capitalismo del Popolo, ha concesso loro alla nascita: ma in cui per contro, la possibilità di
guadagnare più del necessario, per ottenere l’indispensabile superfluo della società
consumistica, e di dare la scalata alle classi sociali più elevate è difficilissima, se non per
chi ha il coraggio di buttarsi in due categorie diversamente pericolose, quella Militare e
quella Religiosa. Le classi inferiori vengono tacitate dai padroni del vapore con una
disinvolta versione dell’antico panem et circenses: una versione che potrebbe sfiorare la
tragedia, l’incubo demenziale, ma che è risolta da Reynolds in modo scintillante e
garbatissimo. Capita, di frequente, che due grandi aziende abbiano divergenze su
questioni commerciali, oppure che un onnipotente sindacato reclami, su di un lauto
contratto, una più cospicua fetta di torta. A questo punto, la soluzione è semplice e
spettacolare: i contendenti assoldano una divisione di mercenari che si scontrerà con le
forze avversarie in una Riserva Militare, in una specie di interpretazione modernizzata delle
antiche ordalie, dei “giudizi di Dio” del medioevo: naturalmente, sotto gli occhi
sospettosissimi degli osservatori militari del Mondo Neutrale e del Mondo Sovietico,
incaricati di controllare che i contendenti non si azzardino a usare armi successive all’anno
1900, ai sensi del Patto Universale di Disarmo. E la popolazione? La popolazione, inebetita
dai tranquillanti, se ne sta in estasiata contemplazione davanti ai teleschermi, tifando e
scommettendo su questa o su quella parte, su questo o su quell’eroe preferito. Mack
Reynolds avrebbe potuto ricavare, da questo tema, un grandioso affresco drammatico;
ma per quello spirito leggero e garbato che ha in comune con Brown, vi ha rinunciato a
favore di una commedia brillante. La denuncia non manca, ma è nascosta dai sorrisi; la
indignazione è sommersa dal divertimento. Allo stesso modo, quando si tratta di
organizzare una reazione a questo stato di cose Reynolds organizza una rivoluzione da
operetta, eppure inquadrata con un tocco nuovo e geniale: i capi della rivolta contro lo
status quo sono alcuni tra gli stessi dirigenti del governo (e qui Reynolds ha avuto una
intuizione non soltanto originale, ma estremamente felice: le rivoluzioni migliori riescono
sempre dall’interno, infatti). E il protagonista, Joe Mauser, che non è riuscito a diventare
un eroe famoso (o meglio, un divo) nonostante il suo valore di soldato, perché il suo
agente pubblicitario l’ha indotto a combinarne una troppo grossa, si lascia coinvolgere in
questa ribellione, naturalmente per i begli occhi di un’aristocratica, e viene spedito a
sondare la situazione del Mondo Sovietico. A questo proposito, Reynolds ha commesso un
felice errore di prospettiva storica: il suo Mondo Sovietico non è più dominato dai russi ma
dagli ungheresi, un popolo tra le cui caratteristiche razziali non figura di certo la libidine
del potere. Tuttavia se Reynolds ha messo il Mondo Sovietico nelle mani degli ungheresi
commettendo un peccato di inattendibilità storica, ha fatto centro in pieno dal punto di
vista del- le necessità operettistiche del romanzo (e qui ci avviciniamo a Lubitsch, più
ancora che a Capra): l’idea degli ufficiali sovietici, aristocratici in un mondo comunista
benestante e imborghesito, che portano il busto e si inchinano con grazia, si battono a
duello per questioni d’onore e folleggiano nelle taverne budapestine al suono di orchestre
tzigane, rientra nella tradizione più felice di tanta parte della narrativa leggera. Per giunta,
Reynolds ha rincarato le dosi, attribuendo ai suoi personaggi ungheresi nomi e cognomi
storici nell’ordine più alto dell’improbabilità: come se qualcuno, ambientando un romanzo in
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