Babylon
Vavilen Tatarskij appartiene a quella 'generazione Pepsi' nata in Russia neglia anni '60 che
- come scrive Pelevin - "sorrideva all'estate, al mare e al sole e sceglieva Pepsi" e che ora
si trova a vivere nel melmoso interregno fra il vecchio e il nuovo. Vavilen, che fa risalire il
proprio nome all'antica città di Babilonia, a 21 anni legge Pasternak, è iscritto all'Istituto
di Lettere e compone versi che spera immortali. Ma assieme all'Urss si dissolve la certezza
nell'eternità e Vavilen si trova suo malgrado nel presente. È così che comincia la sua
rapida ascesa sociale (consigliato da Markovin, una sorta di 'guida spirituale') dall'inferno
del sottosuolo dostoevskiano della 'lumpen-intelligencija' alle vette dorate dei copywriter
professionisti, simbolica scalata di una torre a gradoni che, oltre a evocare un percorso di
iniziazione, un purgatorio laico che porta ad un altrettanto laico paradiso terrestre, è
soprattutto Torre di Babele, confusione della lingua che l'operazione chirurgica del
copywriter seziona e riduce a nuovi esseri ibridi. Sospeso fra antiche dottrine esoteriche,
cocaina e funghi allucinogeni, slogan pubblicitari, Buddha, Eltsin e Che Guevara, "Babylon"
non è solo un romanzo, è una sorta di violento pamphlet che dipinge a tinte forti e
visionarie lo scenario inquietante e iperrealistico di una società sottomessa al regime
dell'informazione televisiva e pubblicitaria. Viktor Pelevin racconta così, in una specie di
apocalisse slava alla George Orwell, di un paese alla scoperta di inedite forme di
persuasione occulta e della parabola selvaggia della russia odierna che sempre più
"assomiglia all'incendio di un bordello durante un'inondazione".
Tellini