Le labrene
La labrena, ovvero il comune «geco», «turpe bestia» nel cui sguardo sono contenuti
«tutto il male, tutto il dolore del mondo», è il perturbante emblema di questi sette
racconti, giocati sul registro più congeniale a Landolfi, tra il grottesco e il fantastico.
Questa volta il suo sguardo si diverte a irridere e a corrodere soprattutto le convenzioni
sociali e sentimentali della famiglia borghese: la vita di coppia con la sua routine, il
tradimento, il volto infernale dei parenti, lo straziante patetismo del sesso nella vecchiaia.
Ma tale sguardo, lungi dal possedere la sorridente bonomia caricaturale cui siamo
avvezzi, diviene lo strumento per immergerci in una dimensione di «smarrimento, angoscia,
terrore». Benché ricordi a tratti Barbey d’Aurevilly o Villiers de l’Isle-Adam per l’indugio
sulla crudeltà, Gogol’ per le luci irreali e stranianti, Le labrene è landolfiano come pochi
altri libri di Landolfi: nell’ibrido di dolore e di indifferenza, di gelido distacco e di complice
pietà che ovunque riconosciamo, nei dialoghi come nelle trame; nell’orrore senza fine cui
sembra fatalmente destinata ogni infelice marionetta mossa dai suoi fili; nel persistente
sospetto che il nulla, sola e agognata via di salvezza, sia anch’esso una illusione («Il vero
incubo di Landolfi è questo: che il nulla non esista», nelle parole di Italo Calvino).Le
labrene apparve per la prima volta nel 1974.
Virelli