L'elisir di lunga vita
Il più simbolico dei delitti possibili è tema comune ai due racconti qui contenuti: in
ciascuno, ne “l’Elisir di lunga vita” come ne “El Verdugo”, un figlio uccide il proprio padre.
In un caso scegliendo, diabolicamente, di farlo, nell’altro essendovi, altrettanto
diabolicamente, costretto. Ambedue i racconti, scritti tra il 1829 e il 1830, sono collocati
da Balzac tra gli Etudes Philosophiques, ovvero in quella parte della Comédie Humaine in
cui egli si prefigge di illustrare i caratteri della natura umana, una ‘fisiologia dell’uomo’
appunto, con lo strumento di una narrazione il cui realismo è spesso deformato da
“un'atmosfera macabra e surreale” sforzo evidente di addentrarsi nella regione più
profonda e misteriosa di quella “fisiologia” e che al lettore moderno sollecita sorprendenti
‘corrispondenze’ con il mondo dell’inconscio e dunque del surrealismo.
Se ne “El Verdugo” è il principio della continuità della famiglia, del suo nome, a caricare
sulle spalle di uno dei suoi membri il dovere di sterminarla, secondo una costruzione
narrativa folgorante che toglie alternative o vie d'uscita in modo così assoluto da
mostrare come la Storia e i Costumi siano o possano essere i carnefici dell’individuo, ne
“L’elisir di lunga vita” è il grande mito di libertà e di dannazione del Don Giovanni che viene
suscitato. Di questo mito il racconto narra una delle possibili nascite. All’origine della
libertà e della dannazione che Don Giovanni incarna c'è il parricidio. Uccidere il proprio
padre sottraendogli il segreto per sconfiggere la morte è ciò che lo rende così libero,
padrone del mondo perché disprezzatore del mondo. Siamo ad uno dei più profondi centri
della crisi umana che la grande ricognizione balzachiana non poteva eludere: “Prese
l’anima e la materia, le gettò in un crogiolo, non vi trovò nulla e da allora divenne Don
Giovanni”.
Bonazzi